Il disagio, la solitudine. Di due donne. Di un’intera società, senza prospettive, senza modelli di riferimento.

Scandito dalle lancette di un orologio che sembrano muoversi a ritroso nel tempo, le ore passano per condurre le due protagoniste in un passato senza tempo che è sempre più buio, immorale, barbaro. In un ambiente scarno, una televisione e come in un gioco delle parti, il mondo reale e quello televisivo si osservano, si specchiano, fino ad assomigliarsi sempre di più: volgarità, abbrutimento, sono i nuovi invincibili virus che contagiano tutti, trasformando la realtà nella più becera fiction televisiva. E senza alcun antidoto. Non resta che adeguarsi all’orrore quotidiano, o provare a rifugiarsi in un mondo altro, fatto di immaginazione, fantasia…delirio, follia. E così quel disagio e quella solitudine si amplificano, si ingrassano, fino a partorire mostri. Violenti, sanguinari. Belve affamate che si nutrono di quella volgarità e di quel abbrutimento dai quali sono stati partoriti. Carne, sangue, sono solo nutrimento, che appartengano all’estraneo come al proprio figlio, al nemico come alla propria madre. Comincia così un gioco al massacro che ha come unico obiettivo la propria sopravvivenza e l’altrui distruzione, come in una jungla, come in una telenovela televisiva, come su uno scranno parlamentare.

Una madre ed una figlia, interpretate da Evelina Nazzari e Gaia Riposati, si incontrano/scontrano nel loro squallido monolocale, per distruggersi. Abbandoni, violenze, incesti. Antichi rancori, ripicche: è un continuo rinfacciarsi, vomitarsi addosso colpe, al solo scopo di giustificare le loro esistenze emarginate. Di animali feriti. Di donne sole.

Le voci allegre dei vicini, i gesti festosi della gente che attraversa la strada, sono le tragiche invenzioni di due donne disperate, o l’ultimo tentativo di aggrapparsi ad un’esistenza reale. Le fotografie ingiallite di una vita trascorsa, lo specchio inesorabile che racconta di un futuro senza prospettive, o il disperato segno tangibile di sentimenti provati, di emozioni vissute.

La squallida esistenza delle due donne annienta ogni speranza di futuro, ma di più, cancella anche ogni ricordo, relegando la memoria in un angolo nascosto: non contano i fatti che sono realmente accaduti, contano solo quelli che oggi possono essere usati come strumenti di offesa, di aggressione. Oltre al bene, scompare il bello, l’arte. Proprio per questo motivo le scenografie sono costituite dalle proiezioni delle opere dell’artista Piero Pizzi Cannella che, con i suoi indumenti e oggetti del quotidiano domestico immersi in una realtà evanescente, per alcuni tratti metafisica, ha saputo raccontare, meglio di altri, il disagio di un’intera società.

Come in un lancinante contro campo, allo squallore dell’interno domestico, le musiche di elegante ricercatezza rievocano un esterno lontano, irraggiungibile, forse perso per sempre.

All’interno di una scenografia scarna ed essenziale, la vicenda delle due donne si articola attraverso un contatto diretto col pubblico, volontario spettatore della tragedia, ma al tempo stesso inconsapevole protagonista di quella vita reale che ha emarginato le due donne, fino a condurle alla follia. Che è la follia dei nostri tempi.